domenica 30 settembre 2012

IL CEFFONE LETTERARIO

In tutta la mia vita non ho lavorato per creare cosette belline e carezzare l'orecchio umano, ma le cose si sono sempre disposte in modo da dare dispiaceri a tutti. Sostanzialmente, il mio lavoro si basa sull'ingiuria, sul sarcasmo contro ciò che mi sembra ingiusto e contro cui bisogna lottare. Vent'anni del mio lavoro letterario non sono stati altro, per dirla in maniera semplice, che un ceffone letterario non nel senso letterale della parola, ma nel senso migliore: cioè in ogni istante è stato necessario difendere una determinata posizione letteraria rivoluzionaria, lottare per essa e contro l'inerzia che si incontra nella nostra tredicenne repubblica.
 
Vladimir Majakovskij, Intervento nella casa del Komsomol della stampa rossa alla serata dedicata a venti anni di lavoro, 25 marzo 1930
 

venerdì 28 settembre 2012

AUTOPSICOGRAFIA - Fernando Pessoa


Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che giunge a finger che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quelli che leggono ciò che scrive,
nel dolore letto ben sentono,
non i due che egli ha avuto,
ma solo quello che loro non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, a intrattener la ragione,
questo trenino a corda
che chiamiamo cuore.


Fernando Pessoa, 1 aprile 1931

mercoledì 26 settembre 2012

MORTE DELLA LETTERATURA


A pensarci bene, la letteratura vivrà finchè qualcuno che si accinge a scrivere una semplice lettera resti in dubbio per qualche istante circa la maniera di rendere verosimile ciò che si propone di dire. E, nel peggiore dei casi, anche supponendo che la gente smetta di scrivere lettere, la letteratura non morirà finchè i poeti, oltre che scrivere, sappiano leggere. In altre parole, signore e signori: i poeti non moriranno,
proprio perchè muoiono.
 
 
Enrique Vila-Matas, "Storia abbreviata della letteratura portatile"

lunedì 24 settembre 2012

FRONTIERE

 
Aveva solo cinque anni quando varcò la sua prima frontiera, quella tra Francia e Svizzera, e rimase stupito di non scorgere la linea rossa e lilla che nelle carte geografiche, così attentamente osservate e che furono il suo primo gioco, segnava il confine tra i due Paesi.
 
 
Enrique Vila-Matas, "Storia abbreviata della letteratura portatile"
 

venerdì 21 settembre 2012

SIGNIFICANTE SIGNIFICATO

Per la prima volta da quando stende rapporti, scopre che non necessariamente le parole funzionano, che possono anche oscurare i concetti che tentano di esprimere. Blue dà un'occhiata alla stanza indugiando su diversi oggetti, uno dopo l'altro. Vede la lampada, e dice fra sé: lampada. Vede il letto, e dice fra sé: letto. Vede il taccuino, e dice fra sé: taccuino. Pensa che non chiamerebbe la lampada letto, né il letto lampada. No, queste parole vanno a pennello agli oggetti che indicano, e nel pronunciarle Blue prova una soddisfazione profonda, come se avesse appena dimostrato l'esistenza del mondo.
 
Paul Auster, "Fantasmi"
 

giovedì 20 settembre 2012

NON SBATTERE LA PORTA QUANDO ESCI

“Non sbattere la porta quando esci”, questa l’espressione preferita di mia madre.
Potevamo non scambiarci una parola per tutta la durata del pasto, arrivare tardi a tavola o alzarci prima del tempo dalla sedia. Avevamo la facoltà di prendere e andarcene. Ma senza sbattere la porta.
Per mia madre lo sbattere della porta significava il venir meno ad un tacito accordo familiare. La soglia – della porta – era anche la soglia – del rispetto – che non era opportuno varcare.
Un giorno, ed era trent’anni fa, mio padre ci lasciò chiudendo fragorosamente la porta del soggiorno. Nell’istante stesso in cui vedevo la sua figura dissolversi al di là dell’ingresso, avevo la certezza che non sarebbe più tornato. Mio padre era “andato oltre” – la soglia. Spauriti, io e mio fratello ci tenemmo per mano sotto alla tovaglia. Quanto a mia madre, lei non ebbe alcuna reazione: fissava stoicamente la sua porzione di peperoni arrostiti.
Non so di preciso cosa passasse per la mente di mia madre in quel momento – nessuno ha mai saputo cosa pensasse mia madre – ma è un dato di fatto che, dal giorno dell’abbandono di mio padre, non mangiammo mai più i peperoni arrostiti. Per anni, in realtà, non li vidi nemmeno di sfuggita e questo mi doleva molto perché i peperoni erano i miei ortaggi preferiti. Solo molto tempo dopo – da adulto – avrei osato mangiarli nuovamente.
Mia madre era enigmatica come una sfinge, indifesa come un soffione in primavera e bella d’una bellezza virginale e illibata. Credo che abbia avuto un solo uomo nella sua vita e questi le aveva dato due figli – non desiderati ma neppure disprezzati. Dalla nascita di mio fratello ogni forma di amore doveva essere cessata tra di loro. Ovviamente le mie sono solo supposizioni, dal momento che in casa non se ne parlava, ma sono avvalorate dal fatto che da allora i miei genitori dormirono in letti separati.
Non diceva quasi mai nulla mia madre. Solo “Non sbattere la porta quando esci”. Perciò, forse, ebbero tanto peso queste parole nella mia infanzia e in quella di mio fratello. Per i primi tredici anni della mia vita, io evitai proprio di varcare la porta se non accompagnato da un adulto. Temevo la soglia dell’ingresso come il portale d’accesso ad un universo sconosciuto. Al di là della porta del nostro soggiorno, era l’Ignoto, dunque lo Spaventoso per un bambino.
Poi, al quarto anno del Ginnasio, uscii. Da solo.
Non scorderò mai l’impressione che mi suscitò il rivedere mia madre una volta tornato a casa. Dandomi le spalle, spazzolava i suoi lunghi capelli grigi (la mamma era giovane, ma come invecchiata prematuramente). Come una statua di sabbia, si pettinava i capelli impolverati. Vidi – ma fu questione di un attimo – il suo sguardo vacuo nel riflesso dello specchio che aveva di fronte. Mi parve di scorgere una patina spenta nei suoi occhi, ma probabilmente – pensavo – era il vetro fumé dello specchio.
Allora capii – di essermi salvato. Trovando il coraggio di uscire dalla porta mi ero anche guadagnato me stesso, la mia identità. Per i primi tredici anni avevo vissuto da segregato. In casa? No, nella paura di mia madre.
Ma una volta assaggiato il mondo esterno compresi che non era come mia madre lo aveva da sempre descritto a me e mio fratello. L’esterno non era il Male. Io me ne avvidi        quel giorno che frequentavo il Ginnasio. Mia madre percepì all’istante il cambiamento dentro di me: le bastò incrociare il mio sguardo nel riflesso dello specchio. D’allora non tenne più alto il viso in mia presenza, come vergognandosi di avermi mentito per molti anni e, al tempo stesso, giustificandosi con un “L’ho fatto solo per il tuo bene”. Del resto, con mia madre erano sempre silenti le parole.
Nella casa della mia infanzia regnava – il silenzio. Per questo mio fratello vulnerabilissimo veniva sgridato quando si lagnava per aver finito i pastelli colorati; per questo fino all’adolescenza non ascoltai musica; per questo i miei genitori tacevano anziché litigare; per questo vigeva la regola – sottaciuta – del “Non sbattere la porta quando esci”. 
 
È il dodici di maggio. Le forsizie – le piante predilette di mia madre – irradiano petali gialli. Una luce dorata e fragrante illumina il feretro che accoglie la mia genitrice. La cassa viene adagiata in un loculo e, a proteggerla, viene posta una lapide – sopra: la foto di mia madre radiosa (è una polaroid che conservavo in uno dei miei cassetti). Il volto della mia allora giovanissima mamma lanciava un vago sguardo a destra, come consapevole che un giorno sarebbe stata posta a fianco di mio fratello. A pochi centimetri, infatti, la nicchia dove giace lui: Geremia Saffi, morto a dodici anni. 
A tratti arriva il profumo dei tigli. Timidamente qualcuno mette la sua piccola manina nella mia. È il mio angelo, la mia bambina, la sola cosa al mondo che mi faccia sentire veramente fiero di aver varcato la soglia – della porta.
 
Maggio 2009

mercoledì 19 settembre 2012

CITTÀ DI VETRO

«Io sono Peter Stillman. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Sì. Non è il mio vero nome. No. Ovvio che la mia mente non è perfettamente a posto. Ma non si può far nulla. No. Nulla. Non più. Lei sta seduto lì e pensa: chi è questa persona che parla con me? Cosa sono queste parole che le escono di bocca? Glielo dirò. O viceversa non glielo dirò. Sì e no. La mia mente non è perfettamente a posto. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Ma ci proverò. Sì e no. Proverò a dirglielo, anche se la mia mente mi mette i bastoni fra le ruote. Grazie.»
 
 
«Un giorno forse farò cose diverse. Quando avrò finito di essere un poeta. Vede, prima o poi esaurirò le parole. Ognuno ne possiede in quantità limitata. E cosa farò dopo? Penso che dopo vorrei fare il pompiere. E dopo ancora il medico. Non fa differenza. L'ultima cosa che voglio essere è il funambolo equilibrista. Quando sarò molto vecchio e finalmente avrò imparato a camminare come tutti gli altri. Allora danzerò sul filo e la gente resterà sbalordita. Anche i bebè. Questo è ciò che vorrei. Danzare sul filo fino alla morte.»
 
 
Paul Auster, "Città di vetro"

lunedì 17 settembre 2012

FOLLIA

Aveva perso il controllo. Non si controlla un innamoramento, mi disse, non è possibile. E la divertiva che fosse potuto accadere in questo modo, con quest’uomo. Un paziente. Un paziente che lavorava nell’orto. Stella, le dissi, non potevi fare una scelta più scriteriata. La verità, mi rispose, è che non ho scelto affatto.
 
Patrick McGrath, Follia

martedì 11 settembre 2012

WHY I’M NOT WHERE YOU ARE 5/21/63

I’d lost “yes”, but I still had “no”, so if someone asked me “Are you Thomas?”, I would answer “Not no”, but then I lost “no”, I went to a tattoo  parlor and had YES written onto the palm of my left hand, and NO onto my right palm, what can I say, it hasn’t made life wonderful, it’s made life possible. When I rub my hands against each other in the middle of winter I am warming myself with the friction of YES and  NO, when I clap my hands I am showing my appreciation through the uniting and parting of YES and NO, I signify “book” by peeling open my clapped hands, every book, for me, is the balance of YES and NO, even this one, my last one, especially this one.
 
Jonathan Safran Foer, Extremely loud and incredibly close
 

domenica 9 settembre 2012

A liberdade

Eras tão só uma palavra nua
como o fogo e intocada.
Agora que te tornaste corpo
doem-me as tuas roupas estreitas
mal talhadas, e tenho a nostalgia
daquela tua impossível nudez
quando eras pedra e madrugada.

Maria da Saudade Cortesão, 1979

 
 

Eri soltanto una parola nuda
come il fuoco e intatta.
Ora che ti sei fatta corpo
mi fanno male i tuoi vestiti stretti
e sbagliati. E ho nostalgia
di quella tua impossibile nudità
quando eri aurora e pietra.

giovedì 6 settembre 2012

Primo Faust – Il fallimento del piacere e dell’amore

O amor causa-me horror; é abandono,
intimidade…
… Não sei ser inconsciente
e tenho para tudo
a consciência, o pensamento aberto
tornando-o impossível.
 
E eu tenho do alto orgulho a timidez
e sinto horror a abrir o ser a alguém,
a confiar nalguém. Horror eu sinto
a que perscrute alguém, ou levemente
ou não, quaisquer recantos do meu ser.
 
Abandonar-me em braços nus e belos
(inda que deles o amor viesse)
no conceber do todo me horroriza;
seria violar meu ser profundo,
aproximar-me muito de outros homens.

Uma nudez qualquer – espírito ou corpo –
horroriza-me: acostumei-me cedo
nos despimentos do meu ser
a fixar olhos pudicos, conscientes
do mais. Pensar em dizer «amo-te»
e «amo-te» só – só isto, me angustia…

 
L’amore mi fa orrore: è abbandono,
intimità…
… Non so essere incosciente
e mantengo con tutto
la coscienza, il pensiero aperto,
rendendolo impossibile.

La timidezza ho del grande orgoglio
e mi fa orrore aprirmi con qualcuno,
confidare in qualcuno. Mi fa orrore
che qualcuno osservi, lievemente
o meno, i canti del mio essere.

 Abbandonarmi tra le braccia nude e belle
(seppure che da esse amor venisse),
solo ad immaginarlo mi atterrisce;
sarebbe violare il mio essere profondo,
avvicinarmi troppo agli altri uomini.

La nudità, del corpo o dello spirito,
mi terrorizza: presto mi abituai,
quando spogliavo il mio essere,
a fissare occhi pudichi, coscienti
del più. Pensare di dire «ti amo»
e soltanto «ti amo», basta ad angosciarmi…

Fernando Pessoa

martedì 4 settembre 2012

Fernando Pessoa e il problema della sessualità

Non trovo difficoltà a definirmi: sono un temperamento femminile con una intelligenza maschile. La mia sensibilità e i movimenti che ne scaturiscono, ed è in questo che consistono il temperamento e la sua espressione, sono femminili. Le mie facoltà di relazione – l’intelligenza e la volontà, che è l’intelligenza dell’impulso – sono maschili.
Quanto alla sensibilità, quando dico che mi è sempre piaciuto essere amato, e mai amare, ho detto tutto. Mi è sempre pesato avere l’obbligo, per un dovere di normale reciprocità – una lealtà dello spirito –, di corrispondere. Mi piaceva la passività. Dell’attività, mi attraeva solo quanto bastava a stimolare, per non farmi dimenticare, l’attività di amare di chi mi amava.
Riconosco lucidamente la natura del fenomeno. È una inversione sessuale frustrata. Si limita allo spirito. Mi ha sempre turbato, però, nei momenti di meditazione su me stesso, non ho mai avuto la certezza, né ancora ce l’ho, che questa tendenza di temperamento non possa un giorno raggiungere anche il corpo. Non dico che allora praticherei la sessualità corrispondente a questo impulso; ma basterebbe il desiderio a umiliarmi. Siamo molti di questo tipo, nella storia – la storia artistica, soprattutto. Shakespeare e Rousseau sono fra gli esempi, o esemplari, più illustri. E il mio timore che questa inversione dello spirito discenda al corpo me lo insinua l’osservazione del modo in cui costoro l’hanno realizzata: il primo completamente, con la pederastia; in modo incerto il secondo, con un vago masochismo.

Fernando Pessoa, Appunti Sparsi