giovedì 29 settembre 2011

ALLEGRO NON TROPPO

Trasalisco. Un incubo? Incerto – protendo il braccio destro verso il comodino, tentando, a tastoni, di trovare i miei occhiali. Le dita s’imbattono in qualcosa di soffice e polveroso; un pigro odore di fumo si leva. Devo aver messo la mano nel posacenere. 
 Mi arrendo. So che dovrei risolvermi ad alzarmi e tirare su le tapparelle, che dovrei lasciare libero il sole d’invadere la casa. Ma so anche che è domenica mattina – le dieci probabilmente – e questo mi dà diritto di rimanere ancora un po’ a letto. A pensarci bene, potrei restarci anche tutta la giornata – a letto. Potrei infilare la mia mano destra sporca di cenere sotto al cuscino e tenere gli occhi forzatamente chiusi fino a quando mi addormenterò. Si, potrei decidere di non vivere questa giornata.
Detesto ogni domenica. M’infastidisce l’immobilità imposta, lo stagnare dei sensi, il deteriorarsi degli stati d’animo. La domenica è uno sbadiglio lungo ventiquattro ore. È, anzi, lo spazio compreso tra il labbro superiore e quello inferiore della bocca che sta sbadigliando: aria, ora inspirata e fredda, ora tiepida ed espirata e, nel mezzo dei due momenti, aria immobile, inconsistente e fragile, praticamente – niente.
Questa giornata non possiede decisamente niente che la renda degna di essere vissuta. Perfino la noia si rifiuta di fare da comparsa. Sostiene che non valga la pena fare da ornamento ad una cosa tanto infima. Non credo che quello della noia sia pessimismo – quanto lucidità. Il tedio non è la bruma che camuffa le cose, ma la pellicola trasparente che le protegge facendole al contempo apparire più piacevoli e lucide.
Lucide come le stanghette degli occhiali che non riesco a trovare ma che dovrebbero dormire sul comodino. Con la testa affondata nel cuscino, sento di respirare a fatica: meglio, magari perderò i sensi e, al mio risveglio, sarà già lunedì. Nell’attesa – il naso schiacciato, la bocca aperta – elenco mentalmente quali buoni motivi avrebbe una persona qualsiasi per alzarsi dal letto di domenica mattina. Andare a messa… chissà quanti a quest’ora stanno giocando a carte col sonno durante la predica del prete! E quanti stanno guardando di sbieco la moglie che li ha trascinati in chiesa! Un tempo – non più di vent’anni fa – ero anche io un osservante. Poi compresi che per esserlo bisognava essere credenti e allora i miei rapporti con i culti religiosi cessarono.
Incontrare  l’amata: questa sarebbe una buona motivazione per sottrarsi alle coperte! E sarebbe anche una motivazione sufficiente per tornare sotto le coperte – ma con lei.
Chi possiede famiglia deve alzarsi di buon’ora per non dare il cattivo esempio ai più piccoli. Al risveglio si accompagna una ricca colazione che invoglierebbe qualsiasi bambino a svegliarsi presto.
Persino chi ha un cane deve uscire all’alba di casa – per portarlo fuori.
Sono arrivato alla conclusione che chiunque abbia delle responsabilità ha una domenica intensa. Allora io dovrei forse considerarmi un irresponsabile, dal momento che le mie domeniche sono piatte? O dovrei considerare piatte le mie domeniche, dal momento che sono un irresponsabile? Sono un irresponsabile, è vero, e lo sono perché nessuno dipende da me. Non ho compagna, né animali da compagnia... né compagnie di compagne che mi costringano ad andare in chiesa. Sono solo solo da solo.
È domenica mattina e l’unico suono che sento è quello del mio respiro soffocato dall’imbottitura del cuscino. No, non ho ancora perso i sensi – o forse sì e sto semplicemente sognando. Mi cola il naso e, se si tratta di un sogno, è davvero (im)pregnante. Ad avvalorare il realismo della situazione c’è anche che un rivolo di saliva sta lentamente sgorgando dall’angolo destro della mia bocca. Sono al buio, ma nella mente vedo già la federa rossa del cuscino diventare bordeaux nelle zone bagnate. È mattina e perché alzarmi se riesco a vedere la realtà stando sdraiato nel mio letto?
Col mio letto-a-vela ho navigato più mari di Magellano, e in minor tempo. Sono salpato alla volta del mar Rosso, del mar Giallo, del mar Bianco e del mar Nero.. e ho trovato quest’ultimo in lutto per il mar Morto. Sempre, prima di gettare l’ancora, ho pulito il mio veliero, in modo da non mescolare i colori. Ma ora è domenica e si pretende da me che abbandoni il mio ruolo di comandante.
Non voglio abbandonare la mia nave. È meglio viaggiare – con la mente – che vivere – con lamenti. È più gratificante sognare di viaggiare che farlo sul serio: non c’è bisogno di fare le valigie né di prenotare mesi prima. Inoltre hai la certezza di trovare bel tempo – sempre.      
Sì, è preferibile fantasticare sul come potrei trascorrere questa giornata, piuttosto che alzarmi dal letto e viverla.  
Che ore saranno? Le undici, ormai. Alla fine, cosa importa dell’orario? Cos’è l’ora? Quale potere possiede l’ora perché gli uomini le diano tanta importanza? L’ora è qualcosa di arbitrario che dovrebbe mettere d’accordo tutti. Io discordo: di domenica le mie ore sono lunghe tre volte quanto quelle degli altri. La lancetta del mio orologio impiega centottanta minuti per compiere un giro completo. Lo giuro – davanti a chi? Al tribunale dei vinti.
 Se fossi il giullare di una corte reale dispersa in un angolo remoto del mondo, sarei felice. Sarei realizzato, se potessi non possedere uno spessore maggiore di quello di una maschera. Rimbalzerei da un angolo all’altro della dimora del mio signore, cantando:
Sono la grande – mente
di un gran – demente.
Di segno in segno,
insegno disegno
e tutto ciò che provoco è
un casuale causare
danni d’anno in anno!
Tutti riderebbero per il mio linguaggio buffo; cosa importa se non è volto ad esprimere nulla? Nessuno si aspetterebbe da me un discorso serio – e spesso una sottovalutata bugia è meglio di una sopravvalutata verità.
Alletto a letto?
Vi piaccio di viso?
Diviso?!
No, in viso!
Inviso?
Giacchè sogno di essere un saltimbanco – e ne vesto i panni e ne assumo i sembianti di notte – io sono un saltimbanco. Sento parlare degli scienziati che fanno spedizioni in Antartide; sogno di prendere parte alle loro missioni, dunque sono anche io uno scienziato. Se nel museo del Louvre ammiro il San Sebastiano del Mantegna, sono io ad averlo dipinto, sono io anche il martire e provo dolore per le frecce che mi trapassano il corpo. Non deliro: tento di declinare le mie notti con le desinenze del giorno. 
È giorno ed è domenica. Le lenzuola opprimono il mio corpo alla maniera di un feretro. Sono sepolto vivo – sotto panneggi di cotone rosso; sento l’odore dell’incenso, ma probabilmente è solo quello dei mozziconi di sigaretta che riposano sul comodino. Trattengo il respiro e il ticchettio dell’orologio da parete è un mantra. Non sono ancora morto. Forse semplicemente interpreto la parte di un intellettualoide che si atteggia a poeta esistenzialista – e che, in realtà, è credibile solo agli occhi di chi è più mediocre di lui. Ma sono solo – in questa casa come nella vita – e recitare senza un pubblico sarebbe uno spreco di forze.
Di domenica sono in funzione meno treni rispetto al resto della settimana. Ho nostalgia delle stazioni: mi piacciono tutte e indistintamente tutte mi mancano in questo momento. Spesso mi ci reco fingendo di essere un viaggiatore. Trascino la mia valigia vuota fino al Café de la Gare; lì leggo il giornale sorseggiando un caffè lungo e amaro, poi consulto il tabellone delle partenze e, ostentando sicurezza, raggiungo il binario sette. Vado sempre al binario sette perché oltre quella piattaforma muoiono i treni merci. Giacciono dimenticati, lontano dallo sguardo dei passeggeri. A volte ho l’impressione che non esista mondo – al di là del binario sette. In un certo senso, la domenica è anche questo: l’ignoto ai confini della stazione, cimitero di carcasse di ferro accasciate su antichi binari. I giorni feriali sono come treni: hanno un tracciato prestabilito e trasportano la certezza che si raggiungeranno delle mete. Ma la domenica è paralisi delle intenzioni – e dubbio e tentennamenti. Ten…ten…ten… ten…na…men…ti.
Cos’è stato? Fuori – delle voci. Si vive – fuori. Il sole di domenica mattina è più irrispettoso del solito. Per sfuggire ai suoi raggi indiscreti potrei uscire stasera. Sì, dopo le venti i treni non circolano più oggi: potrei approfittarne per la mia passeggiata occasionale sui binari! Scarpe comode, torcia in mano – mi emoziona seguire il percorso ferrato dietro ai capannoni industriali; sentire lo scricchiolio sommesso dei ciottoli che accompagna ogni mio passo e assaporare l’aria densa e arrugginita della notte. Mi affaccio sulle piattaforme della stazione e provo un brivido di piacere – il piacere della trasgressione – nell’oltrepassare l’invalicabile linea gialla. Vivo tutti gli addii in sordina delle coppie che si sono dovute separare. Soffro per gli addii che non ho mai pronunciato e per i treni dietro i quali non sono mai corso per salutare un’ultima volta la persona che amavo. Piango per le occasioni sprecate – i treni persi.
Il treno regionale 725 di Trenitalia delle 8:01 proveniente da Piacenza e diretto ad Ancona è in arrivo al binario tre; ferma a Fiorenzuola, Fidenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna Centrale, Castel San Pietro Terme, Imola, Castel Bolognese, Riolo Terme, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Riccione, Cattolica, San Giovanni Gabicce, Pesaro, Fano, Marotta Mondolfo, Senigallia, Marzocca, Montemarciano, Falconara Marittima, Ancona Torrette...
Trasalisco. Un incubo? Incerto – protendo il braccio destro verso il comodino, tentando, a tastoni, di trovare i miei occhiali. Li afferro. Li indosso.
È lunedì.


Marzo 2009

lunedì 12 settembre 2011

R.E.X.O.


Vivo nel frigorifero. Da un anno vivo lì dentro. In un parallelepipedo rigido con la bombatura sul petto. Immenso. Di colore bianco. Un bianco squillante. Lucente. La grossa maniglia d’acciaio curvato. I suoi lati dal consistente spessore. L’altezza perfetta. La giusta per mantenermi eretta del tutto. Sta nell’angolo di una cucina sintetica. Nessun profumo di niente. Mangio insalate freddissime. Lunghe carote col ciuffo. Sedani con le gambe. Poi dormo. A volte sto sveglia. Penso. Ricordo i miei giorni diversi. Quando vivevo. Relazionavo. Uscivo la sera coi tacchi. Scopavo. Sognavo. Speravo. Cercavo l’affetto. L’amore.


da "R.E.X.O.", Isabella Santacroce

lunedì 5 settembre 2011

BARATTO

Non erano
gli abbracci
che non le dava
né il miele
che le taceva
Non la sapeva
amare
(un ansimare
 roco
di inginocchiati
piccola
inginocchiati
– esortazioni
d’uno scarno
romanticismo post-moderno).
Lei si obbligava
a combaciare
con le sue fantasie
ché lui era
la sua sbornia
le lasciava
vertigini
di smarrimento
e nausea
e rossore
sulle guance.
Retrogusto
viscoso
di spinte carezze.
Le curve
barattate
per sdruciti
brandelli d’affetto
 andiamo
bambina
ora spogliati.

sabato 3 settembre 2011

16 FEBBRAIO 2011

Fu quel dialogo
muto
avvenuto nel parcheggio
della stazione
– la raucedine
dei tuoi dubbi
inespressi
l’eco
delle mie atone
certezze.
Lo stile laconico
del nostro
silenzio
superava
in stringatezza
gli annunci ferroviari.
Accanto
eravamo estranei.
Alla mia
non domanda
rispondesti.
Trafiggendo le mie lacrime
– rispondesti
Non so
non so
se ci sarà
un’altra volta.