domenica 29 maggio 2011

TONGUE TWISTER

Io conto le tracce grigie
Io canto le trecce mogie
E sento le brezze stigie
Che santo fecero il doge.   

Sul lastrico piango stanco
Sull’ostrica pongo l’anca
Tirassegno al saltimbanco
Mi rassegno a un salto in banca.

Liscio l’ascia e vado via
Lascio l’uscio, me ne scappo
E vado in periferia
Evado grazie a uno strappo.

Se ha morale tutto questo
Se è amorale ed insensato
Per spiegare dirò presto
Che fin’ora ho scherzato.

Io sono la grande mente
Proprietà di un gran demente
Amo la celia e la burla
Amo la lingua e sedurla.

Se pensi che t’abbia offeso
Aggiungerò scortese 
Che tutto il mondo è palese
E il linguaggio non ho leso.

domenica 22 maggio 2011

LO STOLTILOQUIO

Fuori piove. Non è vero. Lo spavaldo sole di luglio corteggia le cime degli oleandri. Con languidi baci i fiori pallidi cedono alle carezze. Dentro piove; non fuori. Dalle pareti lapidee della mia stanza -  incredibile come l’afa estivo non le sciolga - trasudano gocce di ipocondria. Riluttante alla possibilità di sfiorare quei muri, giaccio al centro della camera, monoliticamente.  Concentrato sugli infissi della finestra aperta, mi obbligo a riflettere su qualcosa; a provare qualcosa. Apatia assoluta. Ritento. Fallisco ancora. Sono sempre stato cinico o è stato il tempo a plasmarmi? I ricordi appaiono indistinti e circospetti, quasi pudichi, eppure svergognati nella loro riservatezza. E se fosse stato il tempo a tramutarmi nell’automa che sono adesso? Il tempo…un susseguirsi di battiti di palpebre, la partita a dadi truccata tra la ragione e l’istinto, e alla fine niente di tutto ciò.
Fuori piove. Sto mentendo: è dal soffitto della mia stanza che piove -  malinconia. Se fossi meno pigro, raccoglierei la pioggia con dei secchi; se l’indifferenza non mi attanagliasse le gambe, agirei. Affastello scuse su scuse: se volessi davvero liberarmi, non rimarrei qui impassibile a crogiolarmi nella fissa inutilità della mia esistenza. Alighieri li ignavi li mandava all’Inferno; ma forse non sapeva che il loro Inferno era già sulla terra. C’è qualcosa di peggiore che vivere per inerzia? Probabilmente sì: la consapevolezza di vivere per inerzia (in questo caso, sarei il più misero degli uomini). Basta. Pensare stanca; interrogarsi affatica. Voglio solo ristagnare nell’acquitrino del mio romito talamo.
Fuori piove - che menzogna! Per anni non ho avuto il coraggio di osservare il cielo. Il suo contegno superbo mi metteva in soggezione, persino il suo colore bizzarro era come se si prendesse gioco di me. Dico “bizzarro”, perché un tempo il mio cielo non era affatto azzurro: altalenava, piuttosto, dal nero al vermiglio al malva… con sprizzi di biancastro. Ora esso non è altro che un telo monocromo dall’interiorità non superiore a quella di una pozzanghera, di una pozzanghera nella quale i bambini trovano poco allettante saltar dentro. Ma cosa si nasconde dietro a questo telo? Il panno mendace quale arcano dissimula? Dicono che tutti abbiamo dei segreti, che talvolta fatichiamo confessare - a noi stessi.
Fuori piove, anche se non è così. Sarei stato un artista. Se l’indolenza non me l’avesse impedito. Oppure sarei stato una lucertola, qualora non fossi nato uomo. Ho sempre provato una sorta di simpatia nei confronti di quelle appendici di terra; le lucertole sono i più esistenzialisti tra gli animali, a volte mi pare di capire quello che pensano (perché loro pensano). Sarei dovuto diventare un artista, perché sin da bambino mi sentivo “altro”. Ero il prototipo dell’osservatore modello, in quanto “estraneo” al mondo. Tuttavia, non ho mai tentato di capire in quale direzione dovesse svilupparsi la mia arte. In un certo senso, nulla è cambiato rispetto a un tempo: non ho mai visto niente, se non attraverso la mia finestra - come appaiono più vivi i colori da dietro il vetro! Gli infissi sono la cornice dell’istantanea perfetta, e i passanti rinomati attori della quotidianità.
Fuori piove, ma non oggi. Inerte macchia nera sulla tavolozza di un ebbro pittore, attendo (Godot forse?). Ma, in fondo, a cosa serve la speranza ad uno che non è mai stato altro se non lo spaventapasseri eretto al centro di un campo fangoso in una mattinata avvolta dal torpore della nebbia? Sto in piedi, è vero, ma non per merito mio. Direi piuttosto che siano bastoni e funi a sorreggermi. E fluttuo nel limbo cinereo di un’esistenza al confine tra desiderio e svogliatezza, galleggiando su un mare di sconforto, incerto se seviziarmi o blandirmi, eppure troppo fiacco per agire. Non mi sono mai illuso di vivere veramente; eppure sono esistito e lo faccio ancora, di questo non v’è dubbio.  Talvolta, tuttavia, mi sono chiesto dove fosse quella vita vera e chi mi avesse costretto a percorrere un sentiero così distante dall’impalpabile perfezione. Mi domandavo se io e la mia vita non avessimo viaggiato su strade parallele per tutto il tempo, ma senza mai incontrarci, senza mai conferire ai miei giorni quella serenità dorata che non osavano mendicare. In seguito mi è bastato guardare i miei occhi scialbi per trovare una risposta.
Fuori piove. Ma che dico? È dentro che piove. Eppure c’è stato un tempo in cui pure nella mia stanza splendeva la luce: anch’io ho amato, o almeno ho creduto di amare. Lei era una personcina insignificante che si vantava di possedere una collezione di nastri gialli per capelli. Non ho mai avuto il coraggio di confessarle quanto ritenessi inutile un tale passatempo; so solo che durante i sei mesi in cui ci siamo frequentati la mia vita è diventata a colori. Poi abbiamo cessato coi nostri svogliati amplessi divenuti più la confidenza del terrore di rimanere soli piuttosto che manifestazioni d’affetto. Avvinghiati insieme in quelle notti di gennaio, sigillavamo in freddi baci le parole che non osavamo dire, ma che entrambi comunque conoscevamo bene. Ancora oggi la vedo - quella misera portinaia - passare sbadatamente sotto la mia finestra, con le buste della spesa magari, o con delle riviste sotto un braccio. La osservo e non uno spasimo turba il mio volto – né il mio cuore. Penso che se tra di noi non ci fosse mai stato niente, non muterebbe quello che provo. Solo questo: beati i mediocri che riescono a vivere felici! Quanto più serena sarebbe la mia esistenza se sapessi collezionare nastri gialli!

Fuori piove. È una bugia. Hanno distribuito i copioni necessari per recitare il teatrino dell’esistenza. Io dov’ero? Perché sono rimasto senza? Per ora nessuno è venuto a dirmi di entrare in scena né mi sono state suggerite le battute. Si è aperto il sipario su una rappresentazione a me sconosciuta, resa peggiore da una sceneggiatura poco stimolante. La guardo, tuttavia, perché non posso fare altrimenti. E, giacché devo farlo, seguo questa farsa con la pignola minuzia di una massaia che dilisca il pesce per i suoi pargoletti. Se proprio non posso farne parte, che almeno recensisca lo spettacolo. Domanderei del regista, ma vociferano che da secoli ormai non si faccia più vedere. Tornerà a breve - dicono taluni -, non esiste alcun regista - ribattono altri. Le braccia lungo il corpo, attendo dunque, ancora una volta troppo inetto per non essere in balia della viltà.
Fuori piove – allegrezza; piange la mestizia dentro. Io, intorpidito d’esistenza e grondante indifferenza, scruto i miei pensieri tra le note del pentagramma di una realtà mono-tona. Pensare stanca, interrogarsi affatica, mi ripeto. E mentre gli oleandri ed il sole si abbracciano lussuriosi, mi chiedo se gli infissi della mia finestra si aprano verso l’interno (della mia stanza disadorna) o verso l’anelato mondo esteriore, quel mondo completo in cui tra i sedili del treno, nei mercati o nei bar è possibile incappare nella vera vita. Mi basterà svoltare l’angolo del mio palazzo per inciampare nella felicità? Sarà sufficiente una folla festosa a fare breccia nella mia noia e annientarla? Oppure la risposta deve venire da dentro di me? Non avere attitudine alla vita non è una colpa. Ingegnarsi per non avere nulla in comune con essa sì.
Fuori piove.

[Maggio2008]

giovedì 19 maggio 2011

MICHELE MARI



Arrivati a questo punto
dicesti
o si va oltre
o non ci si vede mai più

Non capivi che il bello era proprio quel punto
era rimanere
nel limbo delle cose sospese
nella tensione di un permanente principio
nel nascondiglio di una vita nell’altra

Così il mio contrappasso di pokerista
è stato perdere tutto
appena hai forzato la mano

domenica 15 maggio 2011

SGUALCITURA DA CONTATTO

Sfiorare
sfiorire
(affermavo di recente)
è un attimo:
alterco
tra vocali
– trasloco furtivo
effettuato
senza dar nell’occhio
Pavento
la sgualcitura
da contatto
infiammazione
peggiore
di qualsiasi dermatite
Ipocondriaci vent'anni
passati a prevenire
ogni offesa
aprioristica
Da dentro
la mia campana
di vetro
sospiro – appanno
le pareti
E sono queste
lacrime
o vapore acqueo?

domenica 8 maggio 2011

                               Settimanalmente
mi somministri
il farmaco
delle tue labbra
ingannandomi
– di nefasto veleno
cospargi
la bocca
(vuoi che simuli
negligenza?)
Eccoti un patto:
per ogni piaga
una piaga
un insulto
per ogni insulto
Un romantico
taglione
per due menomati
di ragione
Ribatti con l’indirizzo
di un motel
in via Emilia
(i nostri destini
aggrappati
ad un anonimo
Lux
dai muri
verde muffa
e rimorso)
Occhi bassi
– lì ci recheremo

consapevolmente

rassegnatamente

imperdonabilmente.

[Marzo 2011]

sabato 7 maggio 2011

SINTOMI

Angosciata dalle sfumature
(gli occhi stretti)
scruto il sole
tra le dita dei piedi
Sale
il pulviscolo
sospingendo
il pensiero
e io ho bisogno
di tonalità decise
ch’estinguano
le molteplici nuances
dell’esitazione
Vanamente
considero
la funzionalità
di un’antipastiera
– cliché
di un convivio
imposto:
inamovibile
certezza
di non bramarne
una.
D’un tratto so
– tutto ciò
(le sagome nere
che i miei piedi
ritagliano
nella luce;
questa quiete
cogitabonda)
dev’essere sintomo
di quello che chiamano
serenità.

domenica 1 maggio 2011

VIVENDO LA PROPRIA AUTOBIOGRAFIA (filastrocca infelice)


Le piacevano i panini dolci
spalmarsi la crema sui polsi
le gocce di condensa sui vetri
i vecchi film di Elio Petri
scegliere i libri dall’odore oppure
dalla copertina - letture
da donna ancora bambina;
gli uomini sulla quarantina
con “un po’ di pancetta”
e con una maledetta
tendenza a farle male:
il tipo intellettuale
quello già sposato
il manager drogato
l’indeciso eterno.
Scriveva su un quaderno
dozzine di elenchi
ricette film eventi
o liste della spesa.
E con la radio accesa
nel periodo estivo
usava il detersivo
al limone ed altri estratti
ed il lavare i piatti
era un compito lieto
che l’animo suo inquieto
calmava per un poco.
La paura del fuoco
dei segni zodiacali
dei graffi sugli occhiali
della lingua inglese
- ché l’internazionalità è un dettaglio
l’italiano suona meglio.
Migliaia le battute
sulla maglia della salute
che portava quel santone
opinionista in televisione.
Per lo smalto andava matta:
lo metteva, ma, distratta,
con le unghie poi urtava
la credenza e giurava
ch’era l’ultima volta
che nemmeno morta
si sarebbe più imbellettata
le mani – esagerata!
Che tanto ci ricadeva
e ancora prometteva
di essere più attenta.
Non era mai contenta
dei voti dei suoi esami,
seppure i prof a sciami
le facessero la corte
con tonte manimorte
e lusinghe inconsistenti.
A tutti i pretendenti
rispondeva lo stesso:
“Se vuoi fare del sesso,
ci possiamo organizzare
ma il numero di cellulare
non lo lascio a nessuno.
Al tempo opportuno
semmai vedremo;
ora non pensarci nemmeno
e fammi divertire!”.
A furia di mentire
dimenticò chi fosse;
malata di pertosse,
lei trascurò le cure
(ometto le bassure
cui la condusse il male).
Martedì di Carnevale
si congedò dal mondo
e il gatto gemebondo
miagolò per settimane.
Nostalgia? No: fame.