giovedì 20 settembre 2012

NON SBATTERE LA PORTA QUANDO ESCI

“Non sbattere la porta quando esci”, questa l’espressione preferita di mia madre.
Potevamo non scambiarci una parola per tutta la durata del pasto, arrivare tardi a tavola o alzarci prima del tempo dalla sedia. Avevamo la facoltà di prendere e andarcene. Ma senza sbattere la porta.
Per mia madre lo sbattere della porta significava il venir meno ad un tacito accordo familiare. La soglia – della porta – era anche la soglia – del rispetto – che non era opportuno varcare.
Un giorno, ed era trent’anni fa, mio padre ci lasciò chiudendo fragorosamente la porta del soggiorno. Nell’istante stesso in cui vedevo la sua figura dissolversi al di là dell’ingresso, avevo la certezza che non sarebbe più tornato. Mio padre era “andato oltre” – la soglia. Spauriti, io e mio fratello ci tenemmo per mano sotto alla tovaglia. Quanto a mia madre, lei non ebbe alcuna reazione: fissava stoicamente la sua porzione di peperoni arrostiti.
Non so di preciso cosa passasse per la mente di mia madre in quel momento – nessuno ha mai saputo cosa pensasse mia madre – ma è un dato di fatto che, dal giorno dell’abbandono di mio padre, non mangiammo mai più i peperoni arrostiti. Per anni, in realtà, non li vidi nemmeno di sfuggita e questo mi doleva molto perché i peperoni erano i miei ortaggi preferiti. Solo molto tempo dopo – da adulto – avrei osato mangiarli nuovamente.
Mia madre era enigmatica come una sfinge, indifesa come un soffione in primavera e bella d’una bellezza virginale e illibata. Credo che abbia avuto un solo uomo nella sua vita e questi le aveva dato due figli – non desiderati ma neppure disprezzati. Dalla nascita di mio fratello ogni forma di amore doveva essere cessata tra di loro. Ovviamente le mie sono solo supposizioni, dal momento che in casa non se ne parlava, ma sono avvalorate dal fatto che da allora i miei genitori dormirono in letti separati.
Non diceva quasi mai nulla mia madre. Solo “Non sbattere la porta quando esci”. Perciò, forse, ebbero tanto peso queste parole nella mia infanzia e in quella di mio fratello. Per i primi tredici anni della mia vita, io evitai proprio di varcare la porta se non accompagnato da un adulto. Temevo la soglia dell’ingresso come il portale d’accesso ad un universo sconosciuto. Al di là della porta del nostro soggiorno, era l’Ignoto, dunque lo Spaventoso per un bambino.
Poi, al quarto anno del Ginnasio, uscii. Da solo.
Non scorderò mai l’impressione che mi suscitò il rivedere mia madre una volta tornato a casa. Dandomi le spalle, spazzolava i suoi lunghi capelli grigi (la mamma era giovane, ma come invecchiata prematuramente). Come una statua di sabbia, si pettinava i capelli impolverati. Vidi – ma fu questione di un attimo – il suo sguardo vacuo nel riflesso dello specchio che aveva di fronte. Mi parve di scorgere una patina spenta nei suoi occhi, ma probabilmente – pensavo – era il vetro fumé dello specchio.
Allora capii – di essermi salvato. Trovando il coraggio di uscire dalla porta mi ero anche guadagnato me stesso, la mia identità. Per i primi tredici anni avevo vissuto da segregato. In casa? No, nella paura di mia madre.
Ma una volta assaggiato il mondo esterno compresi che non era come mia madre lo aveva da sempre descritto a me e mio fratello. L’esterno non era il Male. Io me ne avvidi        quel giorno che frequentavo il Ginnasio. Mia madre percepì all’istante il cambiamento dentro di me: le bastò incrociare il mio sguardo nel riflesso dello specchio. D’allora non tenne più alto il viso in mia presenza, come vergognandosi di avermi mentito per molti anni e, al tempo stesso, giustificandosi con un “L’ho fatto solo per il tuo bene”. Del resto, con mia madre erano sempre silenti le parole.
Nella casa della mia infanzia regnava – il silenzio. Per questo mio fratello vulnerabilissimo veniva sgridato quando si lagnava per aver finito i pastelli colorati; per questo fino all’adolescenza non ascoltai musica; per questo i miei genitori tacevano anziché litigare; per questo vigeva la regola – sottaciuta – del “Non sbattere la porta quando esci”. 
 
È il dodici di maggio. Le forsizie – le piante predilette di mia madre – irradiano petali gialli. Una luce dorata e fragrante illumina il feretro che accoglie la mia genitrice. La cassa viene adagiata in un loculo e, a proteggerla, viene posta una lapide – sopra: la foto di mia madre radiosa (è una polaroid che conservavo in uno dei miei cassetti). Il volto della mia allora giovanissima mamma lanciava un vago sguardo a destra, come consapevole che un giorno sarebbe stata posta a fianco di mio fratello. A pochi centimetri, infatti, la nicchia dove giace lui: Geremia Saffi, morto a dodici anni. 
A tratti arriva il profumo dei tigli. Timidamente qualcuno mette la sua piccola manina nella mia. È il mio angelo, la mia bambina, la sola cosa al mondo che mi faccia sentire veramente fiero di aver varcato la soglia – della porta.
 
Maggio 2009

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