“Non sbattere la porta quando esci”, questa l’espressione
preferita di mia madre.
Potevamo non scambiarci una parola per tutta la durata del pasto,
arrivare tardi a tavola o alzarci prima del tempo dalla sedia. Avevamo la
facoltà di prendere e andarcene. Ma senza sbattere la porta.
Per mia madre lo sbattere della porta significava il venir
meno ad un tacito accordo familiare. La soglia – della porta – era anche la
soglia – del rispetto – che non era opportuno varcare.
Un giorno, ed era
trent’anni fa, mio padre ci lasciò chiudendo fragorosamente la porta del
soggiorno. Nell’istante stesso in cui vedevo la sua figura dissolversi al di là
dell’ingresso, avevo la certezza che non sarebbe più tornato. Mio padre era
“andato oltre” – la soglia. Spauriti, io e mio fratello ci tenemmo per mano
sotto alla tovaglia. Quanto a mia madre, lei non ebbe alcuna reazione: fissava
stoicamente la sua porzione di peperoni arrostiti.
Non so di preciso cosa passasse per la mente di mia madre in
quel momento – nessuno ha mai saputo cosa pensasse mia madre – ma è un dato di
fatto che, dal giorno dell’abbandono di mio padre, non mangiammo mai più i
peperoni arrostiti. Per anni, in realtà, non li vidi nemmeno di sfuggita e
questo mi doleva molto perché i peperoni erano i miei ortaggi preferiti. Solo
molto tempo dopo – da adulto – avrei osato mangiarli nuovamente.
Mia madre era enigmatica come una sfinge, indifesa come un
soffione in primavera e bella d’una bellezza virginale e illibata. Credo che abbia
avuto un solo uomo nella sua vita e questi le aveva dato due figli – non
desiderati ma neppure disprezzati. Dalla nascita di mio fratello ogni forma di
amore doveva essere cessata tra di loro. Ovviamente le mie sono solo
supposizioni, dal momento che in casa non se ne parlava, ma sono avvalorate dal
fatto che da allora i miei genitori dormirono in letti separati.
Non diceva quasi mai nulla mia madre. Solo “Non sbattere la
porta quando esci”. Perciò, forse, ebbero tanto peso queste parole nella mia
infanzia e in quella di mio fratello. Per i primi tredici anni della mia vita,
io evitai proprio di varcare la porta se non accompagnato da un adulto. Temevo
la soglia dell’ingresso come il portale d’accesso ad un universo sconosciuto.
Al di là della porta del nostro soggiorno, era l’Ignoto, dunque lo Spaventoso
per un bambino.
Poi, al quarto anno del Ginnasio, uscii. Da solo.
Non scorderò mai l’impressione che mi suscitò il rivedere
mia madre una volta tornato a casa. Dandomi le spalle, spazzolava i suoi lunghi
capelli grigi (la mamma era giovane, ma come invecchiata prematuramente). Come
una statua di sabbia, si pettinava i capelli impolverati. Vidi – ma fu
questione di un attimo – il suo sguardo vacuo nel riflesso dello specchio che
aveva di fronte. Mi parve di scorgere una patina spenta nei suoi occhi, ma
probabilmente – pensavo – era il vetro fumé
dello specchio.
Allora capii – di essermi salvato. Trovando il coraggio di
uscire dalla porta mi ero anche guadagnato me stesso, la mia identità. Per i
primi tredici anni avevo vissuto da segregato. In casa? No, nella paura di mia
madre.
Ma una volta assaggiato il mondo esterno compresi che non
era come mia madre lo aveva da sempre descritto a me e mio fratello. L’esterno
non era il Male. Io me ne avvidi quel
giorno che frequentavo il Ginnasio. Mia madre percepì all’istante il
cambiamento dentro di me: le bastò incrociare il mio sguardo nel riflesso dello
specchio. D’allora non tenne più alto il viso in mia presenza, come
vergognandosi di avermi mentito per molti anni e, al tempo stesso,
giustificandosi con un “L’ho fatto solo per il tuo bene”. Del resto, con mia
madre erano sempre silenti le parole.
Nella casa della mia infanzia regnava – il silenzio. Per
questo mio fratello vulnerabilissimo veniva sgridato quando si lagnava per aver
finito i pastelli colorati; per questo fino all’adolescenza non ascoltai
musica; per questo i miei genitori tacevano anziché litigare; per questo vigeva
la regola – sottaciuta – del “Non sbattere la porta quando esci”.
È il dodici di maggio. Le forsizie – le piante predilette di
mia madre – irradiano petali gialli. Una luce dorata e fragrante illumina il
feretro che accoglie la mia genitrice. La cassa viene adagiata in un loculo e,
a proteggerla, viene posta una lapide – sopra: la foto di mia madre radiosa (è
una polaroid che conservavo in uno dei miei cassetti). Il volto della mia
allora giovanissima mamma lanciava un vago sguardo a destra, come consapevole
che un giorno sarebbe stata posta a fianco di mio fratello. A pochi centimetri,
infatti, la nicchia dove giace lui: Geremia Saffi, morto a dodici anni.
A tratti arriva il profumo dei tigli. Timidamente qualcuno
mette la sua piccola manina nella mia. È il mio angelo, la mia bambina, la sola
cosa al mondo che mi faccia sentire veramente fiero di aver varcato la soglia –
della porta.
Maggio 2009