mercoledì 21 agosto 2013

IL VERME DISICIO

Di tutti gli animali che vivono tra le pagine dei libri, il verme disicio è sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia. Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole o il farfalo, piccolo imenottero che mangia le doppie  con preferenza per le "emme" e le "enne", ed è ghiotto di parole quali "nonnulla" e "mammella".
Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico.
Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba solo del verbo "elìcere". Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è molto scaduto d'uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno.
Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L'apocòpio succhia la "e" finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell'Ottocento ne esistevano milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta.
Ma come dicevamo all'inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un'altra, e mette quest'ultima al posto della appena. Sono spostamenti minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com'era prima dell'augurio del verme disicio.
Così il verme agisca perché, se per istinto della sua accurata natura o in odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio.
 
Stefano Benni, "Il bar sotto il mare", 1987

giovedì 25 luglio 2013

MEGLIO QUESTO CHE UNO SCHIFO MAGGIORE

ma cosa le prende, signor silva. non lo so. vedo degli uccelli neri, avvoltoi, che volano sulla mia testa. è un'invenzione dei suoi occhi, qui non entrano nemmeno le mosche, le finestre non si aprono. lo so, ma credo sia un modo di avere paura. pensavo che non avesse paura di nulla. invece ce l'ho. di cosa. di essere ridotto a nulla, della morte che mi ridurrà a nulla, non so. dopo essere morto non sentirà niente, così dicono. chi lo dice, nessuno può dirlo. l'amico silva sta diventando spirituale. no, è solo perché ho paura. anch'io ce l'ho, ma non di essere ridotto a nulla, ma di andarmene da qui, che tutto questo finisca. questo schifo, chiesi io, che finisca questo schifo, signor pereira. e lui scosse il capo e disse, meglio che nessuno schifo o uno schifo peggiore.
 
valter hugo mãe, "la macchina per fabbricare spagnoli"

martedì 23 luglio 2013

la macchina per fabbricare spagnoli

 
Quando laura partorì, torturata dalle aspettative, la nostra elisa nacque nella felicità e nella frustrazione. avresti potuto essere francese, elisa. avresti potuto essere francese, benché ci procuri un orgoglio enorme la resistenza che ti ha permesso di essere portoghese e, così, ereditare il portogallo. il portogallo è tuo, figlia mia, è tuo, pur così difficile da capire.
[...]
Non volevamo essere francesi, volevamo che i portoghesi fossero più felici.

valter hugo mãe, "a máquina de fazer espanhóis"

giovedì 18 luglio 2013

SCRITTO SUL CORPO

Non voglio essere il tuo passatempo, né che tu sia il mio. Non voglio prenderti a pugni solo per il gusto di farlo, ingarbugliando le semplici funi che ci legano, mettendoti in ginocchio per poi sollevarti di nuovo. Lo specchio evidente di una vita governata dal caos. Voglio che il cerchio intorno ai nostri cuori sia una guida e non una minaccia. Non voglio tenerti più stretta di quanto tu possa sopportare. Né voglio che le funi si allentino, che il filo ceda da un lato, che ci sia corda a sufficienza per impiccarci.
 
Jeanette Winterson, "Scritto sul corpo"
 

sabato 13 luglio 2013

Filistei. Peggio ancora: romantici.

"Devo vendere le mie opere! Perché le farei, sennò?"
Non ricordo esattamente la risposta di Agnes. Penso che abbia detto qualcosa riguardo al fatto che l'opera d'arte non poteva ridursi alla sua vendibilità. Walt passeggiava per l'appartamento, deridendoci e tacciandoci di essere degli stupidi sentimentali. Filistei. Peggio ancora, romantici.
"Probabilmente pensate che l'arte riguardi la bellezza!", gridò.

Patrick McGrath, "Trauma", 2007


lunedì 24 giugno 2013

IN UNA STAZIONE DEL METRÒ

Sventurati quelli che hanno scorto
una ragazza nel metrò
e si sono innamorati di colpo
e l’hanno seguita impazziti
e l’hanno persa per sempre tra la folla
Perché saranno condannati
a vagare senza meta per le stazioni
e a piangere sulle canzoni d’amore
che i musicisti ambulanti intonano nei tunnel
E forse l’amore non è che questo:
una donna o un uomo che scende da un vagone
in una stazione del metrò
e brilla per pochi secondi
e si perde senza nome nella sera.
 
Óscar Hahn

 
 
 

venerdì 7 giugno 2013

PROUST'S GRANDMOTHER AND THE ODYSSEY

Proust's narrator muses about his grandmother's attitude towards translations and, more especially, new translations superseding the translations she has been familiar with all her life. To put it briefly, she does not like them at all.
If an Odyssey from which the names of Ulysses and Minerva were absent was no longer the Odyssey for her, what would she have said when she saw the title of her Thousand and One Nights already deformed on the title page, when she could no longer find the immortally familiar names of Sheherazade and Dinarazade transcribed exactly as she had been used to pronouncing them from time immemorial in a book where the charming Caliph and the powerful Genies were hardly able to recognize themselves, having been decapitated as it were, if one dares use that word in the context of Muslim stories, and now being called one the "Khalifat", the Others the "Gennis"?
Proust, 1954
 The first point is that the grandmother quite obviously accepts the existence of translations as such. It is unlikely that she will have read either the Odyssey or The Thousand and One Nights, or both, in the original. Proust's grandmother definitely thinks translation is possible. Yet she clearly distinguishes between what are, to her, "good" and "bad" translations. She likes the translations she has grown up with. "The" Odyssey for her is a translation in which the hero is still called by his Latinized name: Ulysses, and in which the goddes Athena is likewise still called Minerva. Proust's grandmother, therefore, does not really like or dislike a translation; rather, she trusts or distrusts a translator. The translator whose work she is familiar with is, to her, a "faithful" translator.
Mette Hjort states that translations made at different times tend to be made under different conditions and to turn out differently, not because they are good or bad, but because they have been produced to satisfy different demands. It cannot be stressed enough that the production of different translations at different times does not point to any "betrayal" of absolute standards, but rather to the absence, pure and simple, of any such standards.
Translations are made to respond to the demands of a culture, and of various groups within that culture.
Cultures make various demands on translations, and those demands also have to do with the status of the text to be translated. Since languages express cultures, translators should be bicutural, not bilingual.
 
Studying André Lefevere and Susan Bassnett, Introduction: Proust's grandmother and the Thousand and One Nights: the cultural turn in translation studies